Bambini in ospedale: guerrieri da proteggere.

La malattia si sa è un trauma, un'interruzione improvvisa della continuità esistenziale. Una condizione di sofferenza che tutti noi, in diversa misura siamo chiamati a dover affrontare.
C'è chi reagisce tirando fuori tutto il suo potenziale, le sue speranze, le sue energie; chi ha bisogno di adeguato supporto perché si sente impotente; chi non può avvalersi delle sue sole forze.
Cosa può provare un bambino quando si ammala?
Cosa accade in lui quando è costretto a vivere in uno spazio stretto stretto come un reparto ospedaliero o quando gli viene chiesto di fidarsi di persone sconosciute, che parlano un linguaggio incomprensibile e di non temere strumenti strani, manovre complesse e di ignorare l'odore acre di disinfettante?
Come vive un bambino la costrizione di doversi separare dai genitori per andare verso l'ignoto? Come si spiega quello che gli sta capitando? Cosa penserà quando vedrà il sole oltre i vetri e sentirà il vociare dei suoi coetanei che continuano la vita che per lui si è fermata?
I neonati provano dolore fisico?
Ad alcuni può sembrare una domanda assurda eppure in passato si pensava ai neonati come individui passivi rispetto alle stimolazioni ambientali, data l'immaturità fisica e di alcune aree del sistema nervoso centrale. Complice di questo dubbio anche il fatto che i neonati non sono in grado di comunicare verbalmente ed esplicitamente i loro stati e che le loro reazioni sono variabili: dal pianto al "freezing", che rende difficile comprendere cosa stanno provando i piccoli.
Negli anni '70, grazie anche alla diffusione di nuovi strumenti di valutazione ed osservazione per opera dell'Infant Research, è cresciuto l'interesse verso il mondo infantile e si è passati da una concezione passiva del neonato ad una visione del piccolo d'uomo come essere competente, attivo e con sistemi già sviluppati sin dalla nascita.
Per quanto riguarda il dolore fisico si è evidenziato che fin dalle prime settimane di vita siamo in grado di sentire dolore e che tale percezione è molto più intensa rispetto all'adulto. E' tuttavia difficile misurarne oggettivamente l'intensità.
Uno dei meccanismi difensivi che un operatore sanitario può mettere in atto è quello di evitare di "empatizzare" con un paziente preverbale. A ciò si aggiunge la necessità, talvolta, di eseguire un gran numero di esami, indagini, manovre anche invasive per evitare qualsiasi rischio di negligenza; dunque si rende necessario a volte indossare un'armatura per poter portare avanti il proprio lavoro. E questo è uno degli aspetti più drammatici per gli operatori stessi.
Che cosa possiamo fare dunque? L'aspetto sicuramente più importante è mantenere il più possibile la vicinanza fisica del caregiver primario (generalmente la madre). Garantire la relazione madre-figlio è un fattore protettivo sia per il piccolo che per la sua famiglia.
Che impatto hanno la malattia e l'ospedalizzazione sui bambini?
In base all'età, il bambino malato in ospedale può sentirsi disorientato, insicuro, debole.
Le ricerche hanno evidenziato come sia la malattia che l'ospedalizzazione abbiano un forte impatto su diverse dimensioni dello sviluppo:
Dimensione affettiva: paura, incertezza, ansia, tristezza, difficoltà a regolare le emozioni.
Dimensione cognitiva: restare chiusi in un reparto di ospedale per lunghi periodi rappresenta un'interruzione nella continuità di sviluppo del bambino. Vengono a mancare le stimolazioni dall'ambiente e la possibilità di apprendere da situazioni nuove, può compromettersi l'esploratività del bambino che invece è fondamentale per lo sviluppo cognitivo e intellettivo; cala così anche la motivazione ad apprendere e aumenta il senso di impotenza ed inefficacia sperimentato dal piccolo. Spesso i bambini in queste situazioni si focalizzano sulla malattia, dimenticando la loro parte "sana", possono avere una percezione distorta del loro corpo, come guasto, malfunzionante, difettoso e non avere possibilità di entrare in contatto con le loro potenzialità.
Dimensione corporea: al dolore fisico si associa la sofferenza. Dolore e sofferenza sono due concetti diversi: il primo è una sensazione, la seconda è l'interpretazione che diamo al dolore. Spesso la sofferenza supera il dolore e diventa ingestibile per un bambino che non ha ancora i mezzi e la maturità per comprendere e spiegarsi quello che sente dentro. La percezione del proprio corpo cambia così come l'immagine di sé e si attivano diverse difese psichiche, a seconda del bambino, si va dalla negazione della malattia, sino all'iperinvestimento sul proprio corpo e all'iper-focalizzazione sulla malattia.
Dimensione relazionale: vivere in ospedale per periodi prolungati, anche ad intermittenza priva il bambino dei propri contesti di vita: famiglia, scuola o asilo, coetanei, bloccando lo sviluppo della socializzazione e delle abilità relazionali che sono invece l'unità fondamentale del funzionamento umano. Per questo diventa essenziale permettere ai bambini del reparto, accomunati da stesse problematiche, di poter passare del tempo insieme e garantire così la continuità relazionale e sociale.
Nei primi 12/18 mesi di vita del bambino si è saldamente strutturato il legame di attaccamento con il caregiver primario (tipicamente la madre) per cui la continuità nella relazione è essenziale. L'attaccamento sicuro, basato sulla capacità di sintonizzazione empatica, responsività e sicurezza della figura materna favorisce lo sviluppo della "Fiducia di Base", una predisposizione naturale ad esplorare il mondo e a relazionarsi con gli altri avendo la certezza di poter essere confortati e supportati in caso di necessità da una figura di riferimento. L'attaccamento da questo punto di vista è cruciale per lo sviluppo sano del bambino.
In caso di ospedalizzazione, l'assistenza di persone diverse crea disorientamento nel bambino e una conseguente chiusura emotiva che limita fortemente il raggiungimento delle prime autonomie e dei primi traguardi di sviluppo. Ad esempio si è osservato un ritardo nello sviluppo della capacità simbolica e del linguaggio in alcuni bambini ospedalizzati prima dei 2 anni di vita.
I disturbi e ritardi possono essere transitori e reversibili se adeguatamente trattati.
Soprattutto nella prima infanzia (0-3 anni) i bambini non sono in grado di comprendere l'esperienza che vivono: provano dolore e non riescono a capire se questo provenga dalla malattia o dalle cure (spesso invasive per necessità). L'avvicinamento del personale sanitario viene quindi vissuto come una minaccia, con molta paura. E' utile ricordare che nel caso di bambini molto piccoli e neonati spesso si usa una "medicina difensiva" fatta di indagini, esami, manovre per evitare ogni rischio di negligenza medica. I bambini non hanno percezione di queste manovre come necessarie per la loro salute e talvolta possono interpretarle come una punizione. Questo spiega le reazioni molto intense alle cure e la difficoltà a calmarli e rassicurarli. Spesso i bambini più grandi (3-4 anni) manifestano rabbia nei confronti dei genitori stessi ed è fondamentale rassicurare questi ultimi che è una reazione attesa, comprensibile. Ciò che giova inoltre ricordare è che in queste situazioni
è completamente inutile chiedere al bambino un atteggiamento "coraggioso" e fornire spiegazioni sulla bontà degli interventi. Sono piccoli e questa richiesta è per loro incomprensibile!
In base a quanto riportato dalle indicazioni dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, è molto più utile, anzi necessario contenere le loro paure con atteggiamenti rassicuranti e tolleranti, mantenendo sempre un contatto fisico e verbale. Il medico e gli operatori sanitari dovrebbero assolvere alla funzione di "filtro protettivo" che distilla l'esperienza traumatica dando al piccolo la possibilità di elaborarla in piccole dosi e poterle dare un significato per evitare di temerla.
E' essenziale l'attenzione alla qualità della relazione con i genitori dei bambini. Per assicurarsi la loro collaborazione .è fondamentale che anche loro si sentano compresi e soprattutto siano adeguatamente informati e che venga permesso loro di passare più tempo possibile con i figli nel reparto.
I genitori devono essere considerati parte della soluzione e non del problema
L'importanza di un ospedale su misura dei bambini.
Negli anni '50 Renata Gaddini ha evidenziato i rischi legati al distacco dei bambini ospedalizzati dai genitori e dai contesti abituali di vita. Grazie a lei è cresciuta l'attenzione in Italia alle necessità dei bambini costretti a passare lunghi periodi in ospedale: presenza di spazi-gioco e assistenza scolastica nei reparti pediatrici, soggiorno dei genitori durante la degenza sono diventati da allora parte integrante del sistema di "presa in carico" di molti ospedali italiani.
La malattia è una condizione di rischio traumatica che può compromettere lo sviluppo dei bambini, interrompendone la continuità. Uno degli obiettivi della presa in carico ospedaliera nell'infanzia è proprio garantire il più possibile la continuità nello sviluppo psicofisico, e sociale dei bambini.
Alcuni autori (ad esempio Folgheraiter, 2007) hanno evidenziato l'importanza del passaggio da un modello di intervento definito "Curing" ad uno "Caring", meglio noto come "To care".
Qual è la differenza tra i due modelli?
Il modello "Curing" è di tipo sanitario, basato su un rapporto Top-down: l'operatore è ina condizione "up" rispetto all'utente, il quale deve fidarsi e seguire le direttive imposte dalle scelte dello specialista. L'utente è l'elemento debole.
Il modello "Caring" invece punta alla salvaguardia della dimensione psicologico-relazionale del processo di cura e si basa su uno stile di cura familiare, "caldo" e personalizzato, che prevede la partecipazione e cooperazione dell'utente secondo le proprie possibilità. E' centrato sulla responsabilizzazione della persona. In ambito di ospedalizzazione del neonato e del bambino è un approccio di cura umanizzata, centrata sulle esigenze del piccolo, della sua famiglia e dell'ambiente ospedaliero.
Gli obiettivi che si propone sono sostanzialmente tre:
attenzione alle modalità di somministrazione delle cure;
attenzione alle sovrastimolazione;
attenzione alle carenze o barriere dell'ambiente ospedaliero verso il benessere psicofisico del bambino.
Tale modello parte dal presupposto che NON SI DEVE INTERROMPERE LA CONTINUITA' DELLO SVILUPPO DEL BAMBINO e quindi diventa centrale garantire e proteggere la relazione genitori-bambino e favorire la continuità negli apprendimenti del bambino. E' essenziale nel ridurre l'impatto della malattia. Per cui l'intento è fare in modo che tutte le agenzie di socializzazione del minore (famiglia, scuola, gruppo dei pari) vengano coinvolti.
Da questo punto di vista diventa fondamentale la presenza della scuola in ospedale come parte integrante della cura. La scuola in ospedale ha due obiettivi: garantisce continuità negli apprendimenti e allo stesso tempo consente di non aggiungere al disagio quello di un ritardo nella formazione che accentuerebbe la sua percezione di persona inefficace e impotente.
La presenza della scuola o dell'asilo nido in ospedale diventa importante anche per il benessere dei genitori: può essere previsto uno spazio dedicato dove i genitori possono accompagnare i figli e venirli a riprendere, come una sorta di riproduzione della vita quotidiana che garantisce continuità e infonde un senso di sicurezza sia nel bambino che nella sua famiglia. E' ovviamente necessario prevedere la possibilità di creare spazi di ritrovo per i bambini per alimentare la socializzazione tra pari.
L'ospedale dovrebbe inoltre prevedere la presenza di spazi e tempi dedicati ai genitori che condividono problematiche simili; garantire momenti dedicati alla condivisione, al supporto emotivo e allo scambio di informazioni.
In Italia il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca ha proposto dei progetti (2019) a garanzia della scuola in ospedale e dell'istruzione domiciliare.
nel Reparto di Oncoematologia pediatrica dell'Ospedale Regina Margherita di Torino è stato istituito il primo asilo nido gratuito per bambini ricoverati, fruibile anche in caso di trasferimento transitorio in altro reparto per esigenze terapeutiche. Altri asili nido sono stati attivati in alcuni ospedali di Napoli, Monza e altre città italiane.
L'Ospedale Bambino Gesù di Roma prevede da tempo la presenza della scuola di ogni ordine e grado con percorsi didattici personalizzati e strutturati.
Questi sono solo alcuni esempi del crescente interesse in Italia del modello To care nella cura di pazienti bambini.
Quando parliamo di salute, malattia, di cura e trattamento non possiamo prescindere il corpo dalla mente, i bisogni emotivi e relazionali dell'individuo dalla necessità di curare il suo corpo.
La malattia causa dolore e sofferenza la cui intensità è gravità sono influenzate dalle percezioni, dalle emozioni e dalle convinzioni che il paziente nutre verso la sua condizione. La malattia ha un impatto fortissimo sullo sviluppo e sulla personalità dell'individuo ed è una dimensione che non si può ignorare soprattutto con i bambini.
Prendersi cura dei bambini significa non solo curarli nel corpo ma garantire loro dignità, sicurezza e continuità nel percorso di crescita.
Se si cura una malattia si vince o si perde, se si cura una persona, vi garantisco che in quel caso, si vince qualunque esito abbia la terapia! (dal film "Patch Adams")

Bibliografia:
Caviezel-Hildber D., "Prevenire il trauma del ricovero. L’incontro del bambino con l’ospedale", Franco Angeli Editore, Milano, 2000
ABIO/EACH, "Il gioco e l’ospedale prima, durante, dopo", ABIO, Milano, 1999
Filippazzi G., "Un ospedale a misura di bambino", Franco Angeli Editore, Milano, 1997
Capurso M., "Gioco e studio in ospedale: Creare e gestire un servizio ludico-educativo in un reparto pediatrico" , Erickson, Trento, 2001
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